Un nostalgico viaggio a ritroso nel quartiere dei ‘rancavers’

La foto qui riprodotta non risale a molti anni addietro, eppure è già diventata un documento storico. Siamo nel cuore della vecchia Tortona, l’antico quartiere dei ‘rancavers’, il ‘San Martino’, dove abitavano gli ortolani, che rappresentavano l’ultimo, tenace legame con la terra, la generosa terra degli orti. Partivano al mattino di buonora verso le campagna della Fitteria, della Villoria, dell’Alfa e spesso rientravano a sera con il carro o il carretto o il triciclo colmo di ortaggi, dalle insalate alle cipolle, ai pomodori alle patate, a seconda della stagione. Ora, nei più anziani sopravvive solo il lontano ricordo di un mondo perduto. Le superfici orticole della Fitteria si sono convertite in aree destinate ad altri usi e, a partire dagli anni Sessanta del secolo passato, sono nati nuovi, popolosi quartieri, come l’Oasi e Paghisano. Ma per i più la campagna si è allontanata troppo, o è diventata area edificabile che avrebbe assicurato un più immediato e allettante guadagno. E perciò si vanno cancellando anche gli ultimi segni di quel passato. Un tempo, invece, erano non poche le strutture rurali inserite nel tessuto urbano di questa parte della città compresa tra le vie Domenico Schiavi, Carlo Varese, Pinto, Padre Michele, Calderari, la Commenda… Era il ‘San Martino’, il vecchio quartiere dei ‘rancavers’, come ricordava un vecchio adagio che dava una immagine colorita della Tortona del tempo che fu:

I nobil ad San Giacum

I siur dra Canal

I’artista ad San Michè

I rancavers ad San Matè.

Allora Tortona era divisa in quattro parrocchie ed ogni parrocchia rappresentava un quartiere cittadino, con una ben precisa connotazione e dove era molto vivo il senso di appartenenza: così si passava dal quartiere dal sangue blu di San Giacomo (il barone Garofoli, il marchese Passalacqua, il Conte Massa Saluzzo….), ai borghesi nella zona di Santa Maria Canale, agli artigiani di San Michele per finire con gli ortolani di San Matteo, ingenerosamente definiti ‘i rancavers’. Per questo qui i cortili erano aie su cui si affacciava la stalla e in un angolo c’era immancabilmente la cascina, il fienile. Ne sono rimasti ben pochi, con le loro occhiaie vuote fisse nel nulla: uno, ormai vecchio cadente, era vicino all’abside della chiesa di San Carlo ed un altro, a pochi metri di distanza, proprio nel vicolo San Martino, venne riciclato in una sorta di veranda con archi. E’ nel normale ciclo delle cose: anche la città, come le persone, è un essere vivente costituito da infinità di cellule che nascono, muoiono, si rinnovano, e quindi era inevitabile che anche le cascine cambiassero destinazione d’uso, come si dice nel freddo linguaggio burocratico. Eppure, in fondo in fondo, ci sentiamo privati di un’immagine che un poco altera l’identità storica di un quartiere, è qualcosa di familiare che se n’è andato. E pensare che ancora qualche decennio fa in queste contrade sopravviveva l’atmosfera propria di un mondo rurale e paesano, anche se ormai in via di estinzione. Allora c’era ancora qualche stalla e a maggio arrivava nei fienili l’erba del primo taglio che, al suo passaggio, portava nelle vie del centro storico quel profumo inconfondibile del fieno appena secco – ancora ‘sbriis’ – che annunciava inequivocabilmente che la primavera si era ormai affermata. Poco dopo arrivavano le fragole portate su tricicli o carretti trainati a mano, disposte accuratamente nei cestini di legno e pronte per il mercato serale, e lasciavano dietro di sè la scia di un aroma intenso. In autunno comparivano le bigonce colme d’uva e non c’erano problemi a sistemarle sulla strada e procedere alla pigiatura: le poche auto di passaggio non disturbavano le operazioni ed anche i vigili chiudevano benevolmente un occhio su quell’occupazione abusiva di suolo pubblico, segretamente compensati, forse, con una bottiglia di vino dell’annata precedente. E per le strade si respirava quell’aspro odor dei vini di carducciana memoria. Alla pigiatura seguiva la torchiatura. L’operazione avveniva nel cortile e nella cantina di casa Robbiani – che si trovava nell’ultimo tratto di Via Carlo Varese, opposta alla casa Torretta – attorno alla quale si svolgeva una febbrile attività per tutto il periodo della vendemmia. I viticultori, o coloro che avevano un semplice ‘vgnott’ da cui si otteneva il vino per usi famigliari, previa prenotazione, dopo la pigiatura nella bigoncia, portavano le vinacce a questo grandioso torchio comune, in gran parte in legno, che troneggiava su un lato del cortile. L’intervento era ‘self service’: veniva consegnata una stanga in legno che agiva sulla grande vite per spremere le vinacce. L’operazione, abbastanza faticosa, veniva compiuta a forza di braccia e spesso si offrivano anche i ragazzotti della zona, in cambio di una mancia. Si otteneva un vinello, a cui non si esitava di aggiungere anche un po’ d’acqua, (u turcià) per il consumo quotidiano. L’attività in casa Robbiani continuava ancora la sera, quando ormai i clienti del giorno si erano esauriti. Ricorrendo ad una stanga molto più lunga, con cui si poteva esercitare maggior pressione – ma che ci si guardava ben dal consegnare ai clienti – si ritorchiavano le vinacce che erano state lasciate come compenso per l’uso del torchio, e si spremeva fino all’ultima goccia il mosto rimasto nella crappa, la quale, poi veniva portata alle distillerie.

In foto: il quartiere S. Martino o ‘rancavers’

Armando Bergaglio

(continua)