Nel quartiere tortonese dei rancavers un mondo rurale cede il passo al futuro – (seconda parte)

Col passar degli anni, nel quartiere degli ortolani la convivenza tra un tessuto rurale ormai sempre più sfilacciato ed una città che si apriva al “progresso” divenne più difficile. Arrivarono i ‘bastoni’ al neon in sostituzione di poche e fioche lampadine, arrivò l’asfalto a stendere un nero manto su un secolare acciottolato. Il passaggio delle auto cominciò a farsi più convulso. Fu così che alla metà degli anni Sessanta tale Marchèt Armella – detto Baldissar – ormai avanti negli anni lasciava la casa di via Carlo Varese con la moglie, la cognata ed il cavallo, ‘Mascarei’ (anche lui portava i segni della vecchiaia, ‘un bestione di 12 quintali, più forte di un trattore: arava dal mattino alla sera’, mi ricordava una volta Renato Ghisolfi, uno degli ultimi ortolani del quartiere. Le prime auto parcheggiate imponevano a Mascarei manovre sempre più complesse per entrare in cortile, gli zoccoli risuonavano seccamente sull’asfalto mentre una successiva rivoluzione nella viabilità cittadina, con l’istituzione dei sensi unici, rese la vita ancora più complicata, anzi, impossibile. Per i Baldissar fu la resa. Caricarono le loro masserizie sul carro e Mascarei si allontanò con passo lento e pesante: se ne andarono tutti come sconfitti, gettando un ultimo sguardo sul quartiere nel quale, attraverso cambiamenti così repentini, non si riconoscevano più. Con loro il quartiere degli ortolani, dei rancavers, ormai aveva finito di esistere. E da allora, quasi per tacita intesa, cessarono di passare lo stracciaio, il magnano, il ‘cadrighè’ (normalmente veniva dal Veneto), lo spazzacamino… Di solito gli spazzacamini venivano, come gli ombrellai, dal lago Maggiore, ma anche dal Canton Ticino, facevano la stagione a Tortona e a primavera rientravano ai loro paesi. Tutti questi singolari personaggi si annunciavano con la loro voce querula che si ampliava e rimbombava sinistramente nella via. E per i genitori si rivelava uno strumento efficace per intimorire i bambini capricciosi. Poi, lentamente, tacquero le voci e i rumori di una vita intensa ed operosa, mentre il silenzio veniva rotto rabbiosamente dal rombo assordante dei motori. Con il tempo si persero pure gli odori propri di queste vie ricordate dai più vecchi anche come ‘ra cuntrà di sufrìtt’. Un’altra presenza familiare e rassicurante era quella dei frati: scendevano dai Cappuccini da soli, a coppie, a frotte, con gli zoccoli ed i piedi nudi, per tutti avevano una buona parola ed un saluto di incoraggiamento. Anche essi facevano parte del quartiere tanto che via Carlo Varese per qualche tempo, nell’Ottocento, venne chiamata la contrada dei Cappuccini. Poi, una dopo l’altra, cessarono la loro attività anche le numerose botteghe di un tempo. Oggi non ne è rimasta alcuna. Anche il panettiere, presente da secoli in questa via, nell’estate del 2002, se ne andava, dopo che ebbero chiuso i battenti, via via, i negozi di commestibili, del fruttivendolo, del macellaio e del lattaio Bagnasco. Se ne andarono anche la pettinatrice e il ciabattino, il popolare Totò, un napoletano verace da tempo immemorabile trapiantato a Tortona, che dava un tono di gaiezza partenopea alla via: botteghe che erano un luogo di incontro e la sede deputata per l’informazione e per il pettegolezzo quotidiano. Ora al quartiere è rimasto un ultimo e sicuro punto di riferimento, l’oratorio di San Carlo, sede di un attiva confraternita che, nonostante, il mutare dei tempi, rappresenta l’ancoraggio al passato e qui gli abitanti del quartiere, compresi i nuovi immigrati, riscoprono la propria identità il 15 agosto, in occasione della festa dell’Assunta. Le strade adiacenti sono illuminate, mentre sulla porta della chiesa staziona, immancabilmente, il venditore di ‘brasadè’: non si può fare a meno di comprarne una ‘collana’, perché – si diceva – portano bene. Alla sera la tradizionale processione, che si conclude, ieri come oggi, con l’immancabile, anche se poco liturgico, ‘ballo della Madonna’ prima che la statua rientri in chiesa, mentre la banda musicale propone musiche di canti mariani ormai dimenticati. “Dopo la processione tutti a ballare, a bere e a cantare”, mi ricordava l’amico e compianto Giovanni Colla, la memoria storica del rione degli ortolani. Il suo cortile al Capitolo, come altri, era sempre ospitale. Al centro di un tavolo troneggiava una damigiana di vino a disposizione dei presenti. “Per tutti c’era da bere e da mangiare e, al suono di una fisarmonica, si ballava fino a sera.” Ma allora non c’erano i Nas, le Asl e, soprattutto, i cosiddetti ‘diritti d’autore’. Tutto il quartiere si sentiva legato da una comune, sincera amicizia.

In foto: Festa di San Carlo – i brasadè

Armando Bergaglio