79º Anniversario della Liberazione – Terzo quaderno della resistenza dedicato alle donne partigiane 

Per il 79° anniversario della Liberazione, l’Anpi Tortonese ha edito il terzo “Quaderno della Resistenza” dedicato alle donne che sono state protagoniste della lotta partigiana, sia imbracciando il fucile, sia facendo da staffette portaordini o da “vivandiere” per gli uomini nascosti sui monti. Il quaderno, stampato dall’Editrice Sette Giorni, che sarà presentato nel corso della manifestazione che si terrà in città giovedì 25 aprile, sarà poi presentato anche a Pontecurone e a Castelnuovo Scrivia. Qui ne pubblichiamo due ampi stralci. Il primo riguarda Adalgisa Dolores Alberghini “Alba” tortonese alla quale è dedicato il quaderno, una donna che si è sempre impegnata prima nella lotta di Liberazione, poi nel sociale e nella politica. Il secondo invece riporta la testimonianza diretta di Piera Allegrina Cassanini, nata a Dernice, sposata a Volpedo. Una testimonianza diretta di come fu, in quei terribili anni, la vita delle donne impegnate per la Libertà.

DOLORES ALBERGHINI, Alba, (1924-2016)

Adalgisa Dolores Alberghini nacque a Tortona il 23 agosto del 1924 da un graduato dell’esercito, Rujblas, originario di Ferrara, e da Maria Marioni, occupata nella trattoria con stallaggio della famiglia, sita in via Milazzo. Dopo la morte prematura della mamma, Dolores si trasferì a Ferrara con il padre che lì avviò una panetteria con forno. A Ferrara Dolores frequentò le scuole elementari e la maestra, apprezzandone la vivace intelligenza, consigliò caldamente di farla proseguire negli studi; ma la famiglia decise diversamente e la sua avventura con i libri terminò con la licenza di quinta elementare. È la prima delle condizioni sfavorevoli legate al suo essere una donna, per la quale quindi viene previsto un futuro limitato alla cura della casa e della famiglia e la preclusione all’istruzione superiore. Proprio il rimpianto di quanto fosse mancata a lei la possibilità di emanciparsi con l’istruzione la porterà, nei suoi incontri con le scolaresche, a esortare le giovani a studiare, a interessarsi ai problemi sociali e a lottare per garantire la parità delle condizioni tra i sessi. Fece poi ritorno a Tortona, dove collaborò con le sorelle alla gestione della trattoria di famiglia materna, passando in seguito a lavorare al bar Gambrinus. La sua era una famiglia di socialisti:

In casa mia, mi viene da ridere, di nascosto vicino alla stufa cantavamo sottovoce Bandiera Rossa. Sottovoce perché non si sentisse. Comunque la mia famiglia ha pagato caro il fatto di essere antifascista e socialista.

Ben presto la ragazza si rese consapevole che fascismo e ingiustizia sociale erano due facce della stessa medaglia e che soltanto con la lotta si sarebbero potute conquistare la libertà e l’uguaglianza:

Mi avevano mandata a chiamare diverse volte alla Casa del Littorio come si chiamava allora, per prendere la tessera fascista e per me era una cosa che non avrei mai accettato così prendevo la scusa «sono giovane e di tessere adesso non ne vorrei», per tre o quattro volte ci sono riuscita. Poi a un bel momento mi hanno detto: «Guarda che tu lavori in un bar e perciò possiamo anche farti licenziare». Per fortuna non è stato fatto. Perché uno doveva essere fascista? Io penso che ognuno deve esser libero di pensare come vuole e non è stata una cosa da niente riuscire ad arrivare alla libertà. Le guardie dell’annonaria che frequentavano il bar fermavano certe povere donne che venivano giù dal treno con l’olio per scambiarlo con la farina e ne approfittavano in tutti i modi. E vedendo tutte queste brutte cose come si poteva non fare niente?

Al bar dove lavorava, dopo l’8 settembre 1943, riuscì a captare i discorsi che circolavano tra i fascisti, in particolare le notizie che un assiduo avventore, nella veste di spia, passò ai fascisti e ai tedeschi. Dolores, divenuta staffetta con il nome di battaglia Alba, si incaricava di portare ai distaccamenti in val Curone queste informazioni, insieme a quelle raccolte dalle sorelle in trattoria. È il figlio a raccontare come Dolores diventò la staffetta Alba.

Adolfo Marioni, cugino di mia mamma era in orfanotrofio; finito lì perché una volta, se una donna rimaneva incinta senza essere sposata, era un vero e proprio disastro. Il ragazzo, quando arrivò a 12/13 anni, scappò da quel posto con l’amico Tarsiano Ricci e insieme andarono in montagna coi combattenti per la libertà. I partigiani vedendoli così giovani li «battezzarono» con nomi di insetti: Adolfo, il più alto, divenne Mosca e Tarsiano, Pulce. Da quel momento mia mamma partiva a piedi da Tortona e andava su a San Sebastiano o a Caldirola per parlare con questi ragazzi, portando scarpe, calze, vestiti e roba da mangiare. Andandoli a trovare ha cominciato a conoscere i partigiani, anche mio padre che diventò il suo sposo nel 1946. Così le hanno chiesto se voleva fare la staffetta e lei ha accettato ben volentieri perché la sua famiglia era sempre stata antifascista. La mamma non mi ha mai detto che faceva la staffetta: mi raccontava che andava a trovare il cugino. Preferiva invece raccontare le cose in modo più dettagliato a mia moglie e poi alla maggiore delle mie figlie.

Donna determinata, ma mite, Dolores non imbracciò mai le armi né partecipò ad azioni di guerriglia; il suo ruolo era quello di mantenere i contatti con i partigiani che operavano in val Curone, fornendo notizie sui movimenti del contingente germanico di stanza a Tortona e portando ai compagni di lotta cibo, vestiario e medicine.

Praticamente i partigiani non potevano sapere quello che succedeva a Tortona. Occorreva qualcuno che dicesse quasi tutti i giorni «a Tortona oggi è successo questo». Allora cosa facevi? Andavi su per strada a piedi, quanta strada a piedi, e vedevi delle volte arrivare i camion dei fascisti o dei tedeschi, e tu cosa facevi? Facevi né più né meno che nasconderti, c’era la campagna lì. Ti nascondevi o facevi finta di lavorare e poi appena passati i camion uscivi e facevi di nuovo la tua strada. Poi magari trovavi dei contadini con i carri e allora dicevi: «devo andare da mia nonna a Brignano. Se tu vai a Brignano mi porti su?» e difatti mi portava… A Brignano la nonna non c’era, ma c’erano dei partigiani. Continuavi così, andavi su e dicevi quello che dovevi dire e poi ritornavi. Delle volte mi dicono «ma tu cammini poco»; ho camminato così tanto che adesso sono anche stanca.

Fu questa scelta, gravida di pesanti rischi e responsabilità, di militare nella Brigata Arzani come staffetta, la sua personale risposta all’oppressione nazifascista e il modo di portare sostegno concreto.

Io non dovevo mai dire il mio vero nome: mi conoscevano col nome di Alba, come io conoscevo loro con il loro. L’unico che conoscevo proprio era Pulce, quel bambino, quel ragazzo di 16 anni che poi è rimasto ferito e l’ho visto prima di morire. Non lo dimenticherò mai perché stava male. Stava morendo eppure io gli ho detto «guarda, sei giovane adesso torni a casa», ma lui non aveva famiglia, c’era anche quello. Lui mi ha guardato con uno sguardo che non dimenticherò mai e ha detto «No, appena son guarito io vado lassù coi miei compagni». Mi è rimasto questo ricordo perché lui è andato in montagna non per un motivo personale, lui è salito per l’ideale, quello che sentiva e l’ha sentito fino all’ultimo, prima di morire. I partigiani lo andavano a trovare qui all’Ospedale scavalcando il muro. Tutte le sere. Pur se avevano paura di essere presi.

Un altro episodio che spesso Dolores ricordava era l’eccidio sul Castello, il 27 febbraio 1945. I comandi tedeschi, pur se presentivano la sconfitta, non mancavano di applicare le loro macabre consuetudini: ogni tipo di rappresaglia contro resistenti e popolazione andava eseguita senza sosta.  Così dieci persone catturate durante il rastrellamento invernale furono prelevate del carcere di Casale Monferrato e avviate ai bastioni del Castello per essere trucidate. Sergio Cellerino, figlio di Dolores, così riporta il ricordo della mamma:

Dal lontano 1946 mia madre era sempre presente all’annuale commemorazione del misfatto. Si ricordava benissimo dell’eccidio perché era salita al Castello ed era presente quando i Tedeschi misero i bersaglieri di stanza a Tortona con la mitragliatrice davanti ai prigionieri e li obbligarono a sparare. Dopo la fucilazione i bersaglieri lasciarono i morti là per terra per una notte, coi Tedeschi di guardia. La mattina alcune donne e mia madre salirono a portare dei fiori a questi poveri morti. Videro coi loro occhi le due sorelle D. che, arrivate là, sputarono senza alcun ritegno sui morti accompagnando il gesto con frasi di dileggio. Da Volpedo ci arriva una storia molto bella e molto particolare, dove il coraggio di due donne, appartenenti a popoli in lotta e il loro far rete, creando un’alleanza femminile basata su principi di limitazione del danno e solidarietà umana, fece sì che, alla fine, Volpedo fosse risparmiata.

Testimonianza di Piera Allegrina in Cassanini, raccolta dalla figlia Maura (ormai entrambe scomparse)

PIERA ALLEGRINA

Sono nata a Dernice il 1 aprile del 1922 e mi sono sposata molto giovane, nel 1941, lasciando il mio paese e andando ad abitare a Volpedo, nella casa dei miei suoceri. Mio marito lavorava in ferrovia, ed era stato trasferito a Milano. I miei suoceri avevano un piccolo frutteto con pere, pesche ed uva, ed io mi sono subito appassionata alla frutticoltura che ancora oggi, benché vecchia, resta la mia più grande passione. Il mio compito era quello di andare a vendere la frutta al mercato locale, con il mio carrettino a mano. Ben presto familiarizzai con le donne del paese. Imparai il dialetto e incominciai a sentirmi di casa a Volpedo; anche se si viveva in povertà e la guerra si faceva sentire (avevo avuto nel frattempo due bambini), si tirava avanti alla meno peggio. La situazione cambiò completamente nel 1943, dopo l’armistizio. Mio suocero, già sindaco del paese e consigliere provinciale prima del ‘22, militante socialista e apertamente antifascista, si era unito, insieme ad altri antifascisti tortonesi come Mario Silla, ad un nucleo di partigiani che si era formato proprio nel mio paese, a Dernice, per iniziativa di Franco Anselmi (Marco). Da quel momento cominciò per me e per la mia famiglia un periodo di ansia continua: quasi quotidianamente uomini della Brigata nera e dell’esercito repubblichino si presentavano per perquisire la casa, per avere dei nomi di partigiani. Minacciavano di bruciare la casa se mio suocero non si fosse presentato a Tortona, al comando della Brigata nera. Non era facile resistere sotto queste continue minacce, e ci fu un momento in cui pensai di lasciare Volpedo e di rifugiarmi a Dernice con i miei. Ne parlai al comandante Marco, ma lui non fu d’accordo, mi pregò di restare al mio posto, perché qui sarei stata più utile: la mia prima azione di staffetta avvenne così nella primavera del 1944. Un partigiano della formazione di Marco (Sonia), sorpreso dalle Brigate nere a Volpedo fu catturato, picchiato e portato al comando a Tortona. Era facile prevedere quale sarebbe stata la sua sorte. Fortunatamente un compaesano che aveva assistito al fatto si precipitò ad avvisarmi; io presi la bicicletta e salii fino a Borgo Adorno per informare Marco, il quale agì prontamente e, con uno scambio di prigionieri, riuscì a salvare Sonia. Dopo questo fatto mi convinsi che Marco aveva ragione e che avrei davvero potuto essere di qualche utilità. Sarebbe troppo lungo raccontare tutti gli episodi che ho vissuto da allora fino alla fine della guerra, ma ce n’è uno in particolare che non dimenticherò mai. Erano i primi di marzo del ‘45 e la nostra zona era ancora controllata dai tedeschi, che avevano il loro comando alla Malbosca, tra Rivanazzano e Salice. Due tedeschi in perlustrazione a Volpedo incrociarono due partigiani, ne nacque uno scontro a fuoco e i tedeschi ebbero la peggio, restando feriti e disarmati; furono ricoverati a Rivanazzano, dove operava un piccolo ospedale sotto la direzione del dr. Ferrari. Dopo un’ora Volpedo era invasa dai carri armati tedeschi. Il Segretario comunale veniva immediatamente prelevato e portato alla Malbosca, e il Commissario Amilcare Mogni veniva informato che entro la sera dieci volpedesi sarebbero stati fucilati in paese. Era una situazione disperata. Mogni veniva subito a casa mia, mi chiedeva di fare qualcosa. Ma cosa si poteva fare? Devo dire che la mia prima reazione fu di darmi alla fuga con i figli e con la suocera, di scappare in montagna, ma capii che non si poteva e si doveva cercare qualche soluzione. Mi ricordai allora che a Volpedo viveva da alcuni anni con l’ingegner Sacco, una signora tedesca, decisa e intelligente. Corsi da lei, la misi al corrente dei fatti e le chiesi di aiutarmi, di andare a parlare con i tedeschi. La donna accettò, benché reduce da una grave operazione, e con la carrozza dei Marchesi Malaspina si presentò al comando tedesco. Dovette veramente lottare per convincere il comandante a non compiere la rappresaglia, ma alla fine i tedeschi, per riguardo alla loro connazionale, acconsentirono, ma ad una condizione: entro 24 ore dovevano essere restituiti lo Sten, il fucile mitragliatore e la pistola automatica che i «ribelli» avevano rubato ai loro uomini. Allo scadere del termine, avrebbero ucciso dieci persone. Presi la bicicletta e salii a Borgo Adorno per parlare con Marco ed avere indietro quelle armi. Purtroppo c’era una complicazione: nessuno degli uomini di Marco in quel giorno s’era mosso, doveva essersi trattato di partigiani della Val Staffora, della formazione di Domenico Mezzadra (Americano). Una staffetta appositamente inviata confermò che la supposizione era esatta. Per accettare lo scambio Americano voleva però che i tedeschi rilasciassero una dichiarazione scritta in cui si impegnavano ad astenersi da ogni rappresaglia: si era in guerra, e i suoi uomini avevano rischiato la vita per quelle armi. Tornata a Volpedo, informai la signora tedesca e la pregai di tentare un’altra mediazione. Questa volta riuscì a ottenere una dilazione di 12 ore, ma non fu facile strappare ai tedeschi una dichiarazione scritta; sostenevano infatti che non avrebbero mai trattato con «banditi», mentre una garanzia scritta equivaleva a legittimarli, a riconoscerli. Alla fine, comunque, il biglietto fu nelle nostre mani. Bisognava far presto. Presi ancora una volta la bicicletta e salii a Borgo Adorno. Al ritorno mi sentivo alleggerita da un peso: dato che era sera mi accompagnò fino alla Sighera un partigiano (Benito), portando lui il sacco delle armi; qui le affidò a me e io, attraversato il Curone e passando per i campi, arrivai finalmente a casa, dove mi aspettava la guardia comunale. Questi, accompagnato dalla signora tedesca, portò subito le armi alla Malbosca. I tedeschi mantennero la parola e la rappresaglia non ebbe luogo. La vicenda della ventilata rappresaglia a Volpedo, scongiurata grazie anche all’intervento di una donna tedesca, richiama alla mente un episodio simile, avvenuto a Perleto di Carezzano, nel giugno 1944: […] I tedeschi arrivarono sulla piccola piazza [di Perleto, frazione di Carezzano] e videro nel gruppo dei bambini un bambino piccolo e biondissimo (era nato nel 1942 e quindi aveva due anni), si chiamava Rainer [Rainer Maria Cremonti]. Un militare gli si avvicinò e gli disse: «Ah tu sì, che sei un uomo! Tu non hai avuto paura. Sei l’unico rimasto» e gli accarezzava i capelli.  Rainer deve aver capito che parlavano tedesco e ha risposto al soldato con qualche parola in quella lingua. Allora il militare gli ha detto: «Tu non hai paura perché sei un tedesco!». Vollero sapere chi fossero i suoi genitori e qualcuno per lui rispose che sua mamma [Christhild, sposata con Lelio Cremonte e sfollata a Perleto] era di origini tedesche. II comandante si fece condurre dove il bambino abitava, e la mamma di Rainer, Christhild, iniziò a conversare con i soldati, li fece entrare in casa, offrì loro da bere e li persuase che nessuno del luogo era implicato in ciò che era accaduto [l’uccisione del Maresciallo della Polveriera di Carezzano]. Poi la mamma di Rainer li portò di nuovo fuori dove c’era tutto il gruppo dei militari, e i tedeschi, invece di fare un rastrellamento, presero soltanto vettovaglie per mangiare, non fecero nulla contro gli abitanti, e se ne andarono […]. Scriverà diversi anni dopo quel bambino: […] mia madre mi aveva raccontato che spesso alcuni giovani della zona probabilmente partigiani o renitenti di leva, si nascondevano in casa nostra, dove i soldati della Werhmacht non entravano per rispetto nei confronti dei loro connazionali.